diritto civile

LA RESPONSABILITÀ’ PER I REATI AMBIENTALI

La tutela dell’ambiente alla luce dell’evoluzione normativa

Negli ultimi decenni, la salvaguardia del bene “ambiente” si è vigorosamente imposta come tema di discussione a livello sia politico-legislativo che sociale, tanto da indurre il Legislatore costituzionale ad inserire la tutela ambientale tra i diritti costituzionalmente garantiti.

Ed invero, in data 8.2.2022 si è concluso l’iter di approvazione della legge di rango costituzionale che, nell’emendare l’art. 9 della Carta costituzionale, ha annoverato “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni” tra i principi fondamentali che permeano il nostro ordinamento giuridico.

La Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22.2.2022: la sua ratio va ravvisata nell’esigenza di introdurre “senza mediazioni interpretative, una chiara dimensione ambientale nella nostra Costituzione, in linea con l’evoluzione di una sensibilità che si fonda sulla necessità di preservare il contesto naturale nel quale viviamo e di cui siamo parte”, come si legge nella Relazione del 25 maggio 2021 della Commissione Affari Costituzionali del Senato.

All’inserimento dell’ambiente tra i valori primari costituzionalmente tutelati ha fatto seguito l’inevitabile “compressione” di un altro diritto sancito dalla Costituzione, id est l’iniziativa economica (art. 41 Cost.), che non può estrinsecarsi in modo da arrecare pregiudizio all’ambiente ed alla salute.

In altre parole, la tutela ambientale si pone quale limite intrinseco alla libera attività economica.

Inoltre, ai sensi della nuova formulazione dell’art. 41 Costituzione, la legge deve “determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata a fini sia sociali sia ambientali”.

Nel dibattito giuridico internazionale ed europeo, invece, è diventata sempre più concreta l’ipotesi di prevedere il crimine di ecocidio, finalizzato a disincentivare e reprimere adeguatamente tutte quelle condotte che arrecano danni gravi, diffusi e duraturi all’ambiente.

Per quel che attiene al nostro ordinamento giuridico, si è dovuto attendere il 2015, con l’approvazione della legge n. 68 (c.d. legge Ecoreati) perché il legislatore rafforzasse l’azione repressiva nei confronti del crimine ambientale.

L’intervento del 2015 ha avuto il pregio di introdurre nel codice penale l’apposito titolo VI-bis, denominato “Dei delitti contro l’ambiente”, contenente una serie di fattispecie delittuose presidiate da pene severe, misure interdittive e patrimoniali, raddoppio dei termini prescrizionali, tutte previsioni atte ad apprestare una tutela più incisiva al bene ambiente.

 

La responsabilità degli Enti per i reati ambientali

In tale, mutato, contesto normativo, sempre più orientato alla salvaguardia ambientale, non ci si può esimere dall’interrogarsi sul ruolo delle imprese, quali soggetti giuridici maggiormente esposti al rischio di inquinamento ambientale e, pertanto, destinatari delle norme punitive.

Ed invero, considerata la rilevanza dell’impresa nell’ambito della criminalità ambientale, appare utile svolgere alcune considerazioni preliminari sulla responsabilità della persona giuridica per tale tipologia di reati.

Notorio come il D.lgs. 231/2001 preveda la responsabilità “amministrativa” dell’Ente allorquando un soggetto apicale (ovvero sottoposto) operante al suo interno commetta uno dei reati c.d. “presupposto”, enucleati dalla stessa normativa, a vantaggio o nell’interesse nell’Ente medesimo (ad esempio agisca all’accertato fine di realizzare un profitto, che può concretarsi, come riconosciuto dalla giurisprudenza pressoché unanime, anche in un risparmio di costi).

La responsabilità amministrativa sorge qualora difetti l’adozione e l’efficace attuazione di un modello di organizzazione e di gestione dell’Ente idoneo a prevenire le fattispecie delittuose “presupposte” (c.d. colpa di organizzazione), ossia reati della stessa specie di quello verificatosi (è, peraltro, prevista l’adozione tardiva, entro l’apertura del dibattimento, del “modello riparatore”, con possibile mitigazione del regime sanzionatorio).

Il compito di presidiare sul funzionamento, l’osservanza e l’aggiornamento dei modelli è rimesso al c.d. “Organismo di Vigilanza”, ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo.

L’esenzione da responsabilità dell’Ente, in ogni caso, non potrà prescindere dalla prova che il soggetto agente abbia commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e gestione.

Per quanto attiene al reato perpetrato dal sottoposto, invece, l’art. 7 D.Lgs. n. 231/2001, prevede la responsabilità amministrativa dell’ente allorquando la commissione del reato sia eziologicamente imputabile all’omessa direzione e/o vigilanza dei superiori gerarchici.

Nella versione originaria, il D.lgs. 231/2001 non contemplava i delitti contro l’ambiente nel novero dei reati presupposto, in spregio da un lato alle indicazioni internazionali ed europee sulla responsabilità d’impresa e dall’altro alla più recente realtà criminologica. Una tale mancanza si appalesava altresì contraria della legge delega 29 settembre 2000, n. 300 (art. 11, lett. d) che raccomandava al Governo l’adozione di un decreto che prevedesse «la responsabilità in relazione alla commissione dei reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, che siano punibili con pena detentiva non inferiore nel massimo ad un anno anche se alternativa alla pena pecuniaria».

L’ente rimaneva dunque estraneo all’intervento penale: la responsabilità civile scaturente della condotta penalmente rilevante non era certo idonea a scoraggiare la società; anche allorquando venissero comminate sanzioni detentive o interdittive alle persone fisiche, la persona giuridica rimaneva indifferente data la facilità di sostituzione di dirigenti apicali (e non) penalmente responsabili.

L’emanazione delle Direttive 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente e 2009/123/CE sull’inquinamento cagionato dalle navi, ha sollecitato l’implementazione di una disciplina da parte degli Stati membri che prevedesse, anche per le persone giuridiche, la perseguibilità delle condotte illecite tenute ai danni dell’ambiente.

In attuazione delle succitate direttive il D.lgs. 121/2011 ha ampliato il novero dei reati presupposto, introducendo l’art. 25-undecies nel D.lgs. n. 231/2001.

A seguito della sua entrata in vigore, è configurabile la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati contravvenzionali in materia ambientale (principalmente di pericolo astratto) già enucleati dal codice penale o dal D.lgs. 152/2006 (ad eccezione delle fattispecie di cui agli artt. 727 bis e 733 bis c.p., introdotte ex novo), la quale, certamente, non può prescindere dal previo accertamento della sussistenza dei presupposti innanzi citati.

L’estensione della responsabilità agli enti per i reati contravvenzionali contro l’ambiente ha comportato l’applicazione di sanzioni corporative dotate di maggiore efficacia deterrente, costringendo gli enti ad adottare comportamenti preventivi e riparatori in ossequio alle previsioni del D.lgs. 231/2001: l’adozione di un modello finalizzato a prevenire, appunto, le violazioni ambientali; comportamenti diretti ad eliminare o ad attenuare le conseguenze del reato ed infine rendendo applicabile attraverso l’affermazione della responsabilità dell’ente l’istituto generale della confisca del profitto, ai sensi dell’art. 19, del medesimo decreto.

L’altro importante passaggio del legislatore si è realizzato con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il 28 maggio 2015 della legge n. 68/2015. Con tale intervento normativo le fattispecie poste a tutela dell’ambiente sono oggi costruite sotto forma di delitto di pericolo concreto.

Ed invero, la c.d. legge ecoreati, che costituisce senz’altro il più rilevante e incisivo intervento di riforma della normativa di prevenzione e contrasto della criminalità ambientale, ha altresì esteso la responsabilità degli enti alle neo-introdotte fattispecie delittuose di inquinamento ambientale (art. 452-bis c.p.) e disastro ambientale (art. 452-quater c.p.), anche ove commessi in forma colposa (art. 452-quinquies c.p.), nonché di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452-sexies c.p.).

Preme tuttavia rilevare come, nel configurare la disciplina sulla responsabilità amministrativa per gli illeciti ambientali, il legislatore si sia limitato ad ampliare il catalogo dei reati presupposto e a stabilire le relative sanzioni, senza disporre alcunché in merito al rapporto tra il Modello 231 e le norme tecniche rilevanti.

Tale lacuna si pone in netta controtendenza rispetto ad altre aree rilevanti ai fini del D.lgs. 231/2001: a titolo esemplificativo, in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 81/2008, il Legislatore ha espressamente indicato i parametri contenutistici della sezione antinfortunistica che deve essere contenuta nel Modello, stabilendo una presunzione di conformità legale per “i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI – INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGLS) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007”.

In assenza di espresse indicazioni normative, le aziende si sono comunque adoperate per implementare modelli conformi agli standard ed alle normative internazionali ed europee.

 

La responsabilità amministrativa degli enti ed i cambiamenti climatici

Alla luce delle considerazioni preliminari svolte, non ci può esimere dall’interrogarci sull’efficacia delle misure previste dal legislatore al fine di prevenire reati ambientali e, più specificatamente, conseguenze dannose permanenti per l’ecosistema.

Preme, ai fini della presente trattazione, concentrarsi sui cambiamenti climatici in atto, cagionati principalmente dall’emissione di anidride carbonica prodotta dall’inquinamento e dal consequenziale “effetto serra” che aumenta il riscaldamento globale: non può che ravvisarsi un nesso eziologico tra l’emergenza climatica ed i comportamenti a lungo perpetrati, anche dalle imprese, configuranti, all’evidenza, fattispecie criminose lesive per il bene ambiente.

L’impatto dei cambiamenti climatici è stato analizzato dal rapporto speciale del Gruppo Intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, che prevede, entro il 2030, un aumento della temperatura media superiore agli 1,5 gradi.

Gli scenari ipotizzabili sono più che allarmanti: scioglimento completo dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, erosione delle coste ed aumento di fenomeni climatici estremi (oltre a quelli già riscontrabili, quali aumento delle temperature, innalzamento del livello del mare, stress idrico, perdita di biodiversità, cambio di destinazione dei terreni, distruzione degli habitat e scarsità di risorse).

I cambiamenti climatici, tuttavia, pur incidendo sulla nostra sopravvivenza, non sono ancora espressamente configurati dal diritto penale.

Ci si chiede, pertanto, su quali soggetti gravi l’obbligo di prevenire, per quanto possibile, danni di tale portata e quale responsabilità sia configurabile ex post, nell’ipotesi di violazioni giuridiche inerenti a tale, complessa, tematica.

Trattandosi di reati c.d. di sistema, la responsabilità è da addebitare a una pluralità di soggetti indeterminabili (così come plurime e indefinite sono le vittime dei danni ambientali).

Non v’è dubbio che anche sulle imprese gravi l’obbligo di adottare misure idonee a prevenire effetti ambientali avversi (tra i quali è certamente annoverabile il cambiamento climatico, pur se classificabile quale rischio a lungo termine).

Un tanto si evince, anzitutto, dal diritto interno e, precipuamente dal D.lgs. 231/2001 che, tra i reati ambientali “presupposto” da cui può discendere la responsabilità amministrativa dell’ente annovera i seguenti:

Inquinamento ambientale (art. 452-bis c.p.) che, ai sensi dell’art. 5, comma 1, lettera i-ter del D.lgs. 152/2006 deve intendersi quale “l’introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell’aria, nell’acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente (…)”. Tale disposizione sanziona solo gli inquinamenti “abusivi” (violativi di leggi statali, regionali, ovvero di prescrizioni amministrative), ammettendo di contro gli inquinamenti leciti, ossia causati da attività autorizzate.

– Delitti colposi contro l’ambiente (art. 452-quinquies c.p.);

Disastro ambientale ai sensi dell’art.52 quater c.p (l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo).

Inquinamento atmosferico (art. 279 D.lgs. 152/2006);

Reati previsti dalla Legge 28 dicembre 1993, n. 549, in materia di tutela dell’ozono stratosferico e dell’ambiente, concernenti fattispecie di inquinamento dell’ozono (violazione delle disposizioni che prevedono la cessazione e la riduzione dell’impiego – produzione, utilizzazione, commercializzazione, importazione ed esportazione – di sostanze nocive per lo strato di ozono).

Dalle fattispecie innanzi enucleate è dunque evincibile il dovere delle persone giuridiche di prevenire tutte quelle azioni che potrebbero incidere negativamente sulle condizioni climatiche.

Se da un punto di vista meramente astratto non v’è dubbio sulla configurabilità di una responsabilità dell’Ente per l’inquinamento atmosferico, concausa dei cambiamenti climatici, nella prassi diviene impossibile ascrivere determinati eventi alle condotte degli Enti (in quanto, come noto, i cambiamenti dell’ecosistema avvengono a distanza di tempo e hanno plurime cause).

Per tale motivo la sanzione penale deve intervenire in un momento anteriore al verificarsi del danno, non solo per la mera violazione di leggi o prescrizione atte ad evitare eventi climatici avversi, ma anche nell’ipotesi di condotte potenzialmente pericolose per il bene ambiente e più specificatamente per il clima (pur se disancorate dalla violazione di una norma o di un regolamento).

Vi è di più.

Al fine di evitare e/o limitare lesioni al bene ambientale la concentrazione va posta sulla prevenzione.

Un tanto non accade nella realtà fattuale, ove ogni attività che comporta trasformazioni dell’ambiente, e produce emissioni incidenti sul clima, è considerata tendenzialmente lecita finché non giunge al limite del danno.

Le norme vigenti, tra l’altro, si sono dimostrate inidonee alla tutela del clima.

Sin d’ora i legislatori nazionali hanno proceduto con varie discipline di settore, che governi e amministrazioni hanno concretizzato in giudizi tecnici operando un bilanciamento di tali esigenze di tutela con i più rilevanti interessi economici.

In particolare, a livello locale, anche attraverso le pratiche di cd. compliance ambientale, si demanda ai poteri amministrativi, non solo il compito di controllare, ma soprattutto di individuare quanto è consentito, quali lesioni sono giustificate, nonché di specificare con l’ausilio della scienza le trasformazioni necessarie.

L’ambiente, tuttavia, è bene fondamentale di rango superiore alla libera iniziativa economica: la normativa sin d’ora adottata, all’evidenza, sacrifica eccessivamente la tutela ambientale climatica in favore degli interessi dell’economia.

Ciò che manca, dunque, è una “democrazia ecologica”, ossia una scelta politica che vada oltre la logica degli attori economici.

Il ricorso al diritto, inoltre, avviene, ormai da tempo in un’ottica meramente emergenziale.

Per tutte le ragioni sopra addotte, diviene essenziale l’adozione, da parte delle imprese ed in un’ottica preventiva, di modelli organizzativi e di gestione idonei a tenere sotto controllo gli impatti ambientali (e climatici) delle proprie attività ed a prevenire la commissione di reati ambientali, nonché conformi agli standard europei ed internazionali rilevanti (a titolo esemplificativo, alle norme ISO 14000; al Regolamento comunitario EMAS n. 2009/1121/CE; agli standard UE per le obbligazioni verdi, c.d. Green Bond Standard; al Regolamento europeo 2018/852 relativo alle riduzioni annuali vincolanti delle emissioni di gas serra a carico degli Stati Membri; al Regolamento europeo 2018/1999 sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima;  al Regolamento europeo 2020/852 sulla c.d. tassonomia verde; al Regolamento europeo 2021/241 per la ripresa e la resilienza; a livello internazionale, all’Accordo sul Clima di Parigi del 2015; alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992).

Diviene altresì necessario incentivare l’adesione volontaria delle imprese del settore industriale al sistema comunitario di ecogestione e audit per la valutazione e il miglioramento della propria efficienza ambientale, voluto dall’Unione Europea nell’ambito del V° Programma di Azione per favorire un rapporto nuovo tra imprese, istituzioni e pubblico basato sulla cooperazione, sulla trasparenza e sul supporto reciproco.

Al fine di garantire un efficace presidio rispetto alla commissione di reati presupposto nell’ambito delle organizzazioni, la progettazione e l’attuazione di un Sistema di Gestione Ambientale da parte dell’ente rappresenta sicuramente una solida base di partenza rispetto all’implementazione del Modello 231, con particolare riferimento all’approccio organizzativo di procedure e processi interni, anche in ragione della complessità e dell’ampio grado di dettaglio degli adempimenti richiesti dalla normativa ambientale.
Chiaramente, il Modello 231 non potrà essere un mero riporto al sistema di gestione ambientale: l’ente dovrà infatti nominare un Organismo di Vigilanza ed implementare un sistema disciplinare, in modo tale da perfezionare l’organizzazione della persona giuridica in chiave preventiva.

A parere di chi scrive, la sanzione penale dovrebbe essere ulteriormente anticipata, intervenendo ogni qual volta l’impresa ometta di adottare un sistema idoneo alla gestione dei rischi ambientali e climatici, disancorando la tutela penale, in tale specifico caso, dalla lesione effettiva o potenziale del bene ambiente (proprio in ragione dell’importanza di quest’ultimo).

Un tanto al fine di disincentivare le condotte criminose aziendali in un’ottica di prevenzione generale.

In altre parole, si ritiene necessaria, soprattutto al fine innanzi detto, l’obbligatorietà dei Modelli 231, con previsione di sanzione penale nell’ipotesi di mancata adozione o di inidoneità del modello rispetto al fine perseguito.

Preme infine analizzare la questione da una diversa prospettiva: la pretermessa tutela ambientale e climatica, oltre ad avere conseguenze lesive e potenzialmente catastrofiche per l’ecosistema e la totalità degli individui, potrebbe avere un impatto negativo anche sulla capacità reddituale dello stesso ente (c.d. rischio reputazionale).

Gli enti collegati a controversie sociali o ambientali, o, più in generale, che non sono percepiti come abbastanza sensibili alle problematiche ambientali nello svolgimento delle proprie attività, potrebbero essere esposti a un impatto finanziario negativo derivante da rischi reputazionali in seguito al mutare della fiducia dei mercati in relazione ai rischi climatici e ambientali. Analogamente, per evitare rischi reputazionali o di contenzioso derivanti da controversie relative ai propri prodotti, ad esempio determinate da investimenti in prodotti con un impatto ambientale avverso, gli enti dovrebbero anche considerare di valutare la conformità dei propri prodotti di investimento alle migliori prassi internazionali o a livello di UE, fra cui ad esempio lo standard UE per le obbligazioni verdi (c.d. Green Bond Standard) e la conseguenziale adozione di un Modello 231 adeguato alla salvaguardia ambientale nonché climatica.

 

La responsabilità internazionale ed europea per i cambiamenti climatici

Le Nazioni Unite, con Risoluzione del 25 giugno 2014 del Consiglio dei diritti dell’Uomo, hanno previsto per gli attori economici un vero e proprio obbligo di evitare impatti climatici dannosi per la salute individuale e collettiva.

L’ecosistema rinviene la propria tutela anche nell’art. 2 della Convenzione Europea sui Diritti dell’uomo, che tutela il diritto alla vita e il collegato diritto alla salute, a prescindere dall’origine e dalla tipologia dei rischi, di natura pubblica o privata, che possono interferire, e nell’art. 8, che presidia il diritto ad un proprio spazio vitale, proteggendo l’individuo contro interferenze arbitrarie da parte di autorità pubbliche.

Preme, tuttavia, individuare i destinatari di una tale responsabilità “internazionale”.

Non v’è dubbio che gli effetti del cambiamento climatico siano giuridicamente attribuibili agli Stati, per i quali è prevista una responsabilità dinanzi al giudice internazionale in caso di violazioni dei diritti umani.

Una tale responsabilità, tuttavia, anche alla luce di quanto addotto dalle Nazioni Unite, è altresì imputabile alle imprese transnazionali.

Ed invero, è stato accertato il coinvolgimento di alcune imprese nella commissione di crimini internazionali di competenza della Corte Penale Internazionale, le quali fornivano beni e servizi che contribuivano alla commissione del reato, ovvero sfruttavano illegalmente risorse naturali necessarie ai processi di produzione.

Emblematiche, a tal proposito, sono le raccomandazioni della Banca mondiale che ha considerato il rispetto dei diritti umani un ostacolo al commercio, non una reale volontà politica, in quanto gli Stati puntano soprattutto a salvaguardare i potenziali investitori, creatori di posti di lavoro.

Per i suesposti motivi, si discute sulla possibilità di introdurre la responsabilità delle persone giuridiche dinnanzi alla Corte penale internazionale, anche al fine disincentivare a monte condotte lesive dell’ecosistema prima di addivenire al prodursi di eventi dannosi.

Attualmente, inoltre, in diversi sedi, anche internazionali – specie su stimolo di Organizzazioni non governative – si discute sull’introduzione del crimine di “ecocidio” di competenza della Corte Penale internazionale, ovvero in alcune legislazioni nazionali.

Il termine ecocidio comparve per la prima volta negli anni ’70, e fu utilizzato nell’ambito della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano che si tenne a Stoccolma nel 1972 dall’allora primo ministro svedese Olof Palme, con riferimento alle modalità di conduzione della guerra in Vietnam che avevano irreversibilmente distrutto risorse naturali su larga scala.

Per lungo tempo l’ecocidio è rimasto confinato al contesto dei crimini di guerra, trovando applicazione soltanto a quelle condotte, tenute nell’ambito di un conflitto armato, che avessero provocato «danni diffusi, duraturi, e gravi all’ambiente naturale», come previsto dall’art. 8.2.b.IV dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Non sono tuttavia mancate riflessioni dogmatiche di più ampio respiro sull’ecocidio, che non hanno però sinora trovato riscontro in iniziative normative concrete, e ciò anche in considerazione delle resistenze politiche perlopiù dettate dalla necessità di preservare interessi di natura economica legati alla produzione industriale.

Con il tempo, la figura dell’ecocidio si è affrancata dall’eccezionalità del contesto bellico, finendo per identificarsi con i gravi pregiudizi conseguenti a un certo sviluppo economico-industriale che, con connotati tutt’altro che eccezionali, mette a repentaglio il delicato equilibrio dell’ecosistema globale.

Il 20 maggio 2021 il Parlamento UE ha approvato il testo della Risoluzione sulla responsabilità delle imprese per i danni ambientali, con cui ha rilevato una scarsa applicazione delle fattispecie penali a tutela dell’ambiente,  una preoccupante disomogeneità delle normative nazionali in materia, tale da determinare gravi distorsioni che ne inficiano l’applicazione, ma, al contempo, il «crescente impegno da parte degli Stati membri ad adoperarsi per il riconoscimento dell’ecocidio a livello nazionale e internazionale».

Nello stesso senso, il precedente parere della Commissione per lo sviluppo, del 7 dicembre 2020, rilevava come «mentre il diritto internazionale ambientale si è evoluto attraverso l’adozione di trattati e convenzioni, il diritto penale continua a rivelarsi insufficiente per prevenire danni ecologici significativi», ed esortava pertanto  l’Unione a promuovere «un ampliamento della sfera di competenza della Corte penale internazionale ai fini del riconoscimento dei reati che costituiscono ecocidio nel quadro dello Statuto di Roma».

Di qui la spinta a inserire l’ecocidio, in tale nuova veste, tra i crimini di competenza della Corte penale internazionale, così gettando le basi di un importante cambio di paradigma: una simile innovazione normativa porterebbe infatti nell’alveo del diritto penale internazionale la responsabilità da reato delle persone giuridiche, nella specie delle imprese multinazionali, novità assoluta in un panorama giurisdizionale sinora rivolto alla sola responsabilità individuale delle persone fisiche, tipicamente esponenti di vertice del mondo politico e militare degli Stati.