LA PROVA DEL MOBBING
Il mobbing ricorre in presenza dei seguenti elementi:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. Lav. 11/12/2019 n. 32381; Cass. Lav. 17/2/2009 n. 3785 e Cass.17.1.2014 n. 898).
E’ stato ritenuto che si configura la fattispecie del mobbing ove il giudice verifichi la presenza contestuale dei sette parametri tassativi di riconoscimento del fenomeno, rappresentati dall’ambiente, dalla durata, dalla frequenza, dal tipo di azioni ostili, dal dislivello tra gli antagonisti, dall’andamento secondo fasi successive, dall’intento persecutorio. (Nella fattispecie, la prova testimoniale aveva confermato la sottrazione delle mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all’altro, l’umiliazione di trovarsi in posizione sottordinata a lavoratore che in precedenza era un proprio sottoposto, l’assegnazione a un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di lavorare, con conseguente più cocente umiliazione) (Cass. 15/05/2015, n. 10037).
La prova del “mobbing” deve riguardare sia l’elemento oggettivo delle condotte idonee a integrare il “mobbing“, che l’elemento soggettivo persecutorio del datore di lavoro, ovvero il suo animo di nuocere al lavoratore. Se la prova della condotta non presenta particolari problemi, più ardua è la prova del dolo del datore di lavoro, da intendersi nell’accezione di volontà di nuocere o infastidire o comunque svilire in qualsiasi modo il proprio dipendente. L’onere della prova è a carico del lavoratore.
Sotto tale profilo la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 23918 del 25 settembre 2019, si è pronunciata stabilendo che la prova del dolo del “mobber“, ovvero dell’intento vessatorio del datore di lavoro, possa essere fornita dal lavoratore anche in base alle caratteristiche oggettive dei comportamenti tenuti, e cioè su presunzioni gravi, precise e concordanti, dai quali è possibile risalire da fatti noti ad altri ignorati (articolo 2727 del Codice civile). Anche il Consiglio di Stato (sezione IV, sentenza 4471 del 1° luglio 2019) ha affermato che la prova dell’ animus nocendi può essere soddisfatta dal dipendente anche attraverso presunzioni tratte da elementi oggettivamente riscontrabili.